Con l’espressione “canzone napoletana” si indica genericamente una canzone con testo in dialetto napoletano.
In questo campo bisogna necessariamente separare la produzione popolare da quella colta. Nel primo caso ci si riferisce all’autentica tradizione etnica, di pura trasmissione orale, che fa uso di modelli e linguaggi complessi ed è in relazione, generalmente, con situazioni magico-rituali di origine pagana, poi ammantate di riferimenti cristiani (è il caso, ad esempio, del culto per la Madonna di Montevergine o la Madonna dell’Arco). Questo immenso patrimonio folklorico è oggetto negli ultimi anni dell’attenzione di numerosi studiosi: su tutti spicca l’attività di Roberto De Simone.
Nella sua più reale accezione, per “canzone napoletana” si intende tutta quella sterminata produzione che ha origine nell’Ottocento. Secondo alcuni è negli anni ‘30 del XIX secolo che si apre il ciclo storico della canzone, consacrata nel 1839 dal successo riscosso da Te voglio bene assaje durante la prima Piedigrotta canora. Secondo altri, invece, bisogna aspettare la fine del secolo, quando si crea un vero e proprio fenomeno artistico, che, unendo la tradizione popolaresca, la romanza e l’esperienza teatrale buffa, pone in primo piano l’ispirazione lirica, arricchita, nell’arco di tempo che va dal 1880 al 1920, dall’apporto dato da musicisti e poeti, questi ultimi emblematicamente rappresentati da Salvatore Di Giacomo. In ogni caso, la canzone, intesa quale prodotto d’arte, si lega ai meccanismi della produzione colta, utilizzando quali strumenti di promozione in un primo momento le copielle, fogli volanti con la riproduzione di testi e musiche, e quindi tutte le possibilità di diffusione legate alla grande strategia editoriale. Tra i mezzi di propagazione a cui si lega la canzone non si deve, infine, dimenticare la figura del posteggiatore, sorta di musicista girovago, che a tutt’oggi, seppur stentatamente, sopravvive.
In una prima fase si nota l’appropriazione di brani popolari da parte di musicisti colti: lo testimoniano le famose raccolte I passatempi musicali di Guglielmo (Guillaume) Cottrau, L’eco del Vesuvio di Teodoro Cottrau e Celebri canzoni popolari di Francesco Florimo.
Il periodo d’oro della canzone si identifica con la produzione di poeti come Salvatore Di Giacomo, Ferdinando Russo, Gabriele D’Annunzio, Ernesto Murolo, Libero Bovio ed E.A. Mario, e di musicisti colti, tra i quali Mario Pasquale Costa, Francesco Paolo Tosti, Ernesto De Curtis, Enrico De Leva, Luigi Denza ed Ernesto Tagliaferri, essendo una felice eccezione il caso dell’illetterato Salvatore Gambardella.
Una posizione a parte è tenuta da Raffaele Viviani, commediografo e poeta, che nella vera lingua dei vicoli racconta a teatro, anche musicalmente, la storia di una dolente umanità.
Un certo rilievo si avverte nei generi della canzone napoletana con caratteri spiccatamente teatrali: la macchietta, introdotta a fine Ottocento da Ferdinando Russo e poi ripresa intorno al 1930 da Gigi Pisano e Giuseppe Cioffi, e la sceneggiata, che utilizza la canzone drammatica o di giacca, genere che, raggiunta una fisionomia propria intorno al 1920, viene ripresa negli anni ‘60 dal carisma dell’interprete Mario Merola.
A metà del XX secolo la canzone napoletana – e il Festival della Canzone napoletana, noto anche come Festival di Napoli, nato nel 1952 ne è una testimonianza – tende a identificarsi con la musica leggera.
Negli anni ‘50 emerge la figura singolare del cantautore Renato Carosone, che fonde nelle canzoni elementi ritmici di ispirazione americana.
Negli anni ’60, il cantautore Roberto Murolo, figlio del poeta Ernesto, recupera l’antica figura del menestrello, con il canto accompagnato da una chitarra: insieme al chitarrista Eduardo Caliendo, ripercorre il repertorio partenopeo anche più antico e pubblica Napoletana. Antologia cronologica della canzone napoletana (1963).
Sempre a partire dagli anni ‘60 si avverte, grazie soprattutto a Roberto De Simone, una riproposizione della musica popolare, con frequenti scambi con la produzione colta: esemplare è il lavoro svolto dalla Nuova Compagnia di Canto popolare, che sfocia nell’opera teatrale La gatta Cenerentola (1976).
Un percorso simile a quello di Murolo, più attento filologicamente, è intrapreso dal cantautore Sergio Bruni, che, con gli arrangiamenti di De Simone, pubblica una nuova Antologia della Canzone napoletana (1984). In essa l’artista riprende anche la sua produzione degli anni ‘70 su poesie di Salvatore Palomba, con le quali intende restituire rilievo alla canzone, penalizzata mediaticamente dalla fine del Festival e dall’esplosione di temi ispirati al mondo della malavita.
Dagli anni ‘90 Renzo Arbore con l’Orchestra Italiana riscopre la ricezione internazionale della canzone napoletana – aperta dal tenore Enrico Caruso, che, con i suoi dischi, aveva contribuito significativamente all’affermazione del fonografo e la più ampia diffusione della canzone nel mondo – proponendo in varie tournées interpretazioni ricche di contaminazioni con varî generi musicali prevalentemente di matrice americana.
Dalla seconda metà degli anni ‘70, artisti come Pino Daniele, James Senese ed Enzo Gragnaniello creano un nuovo genere, che inserisce nella tradizione della canzone le più diverse esperienze contemporanee.
Negli anni Novanta tale tradizione di canzone urbana napoletana si arricchisce dell’apporto delle 99 Posse e degli Alma Megretta, che fanno riferimento al dialetto urbano contemporaneo, mentre un altro filone modernizza i temi della tradizione, con testi di storie intime anche vere, affiancate da melodie di gusto pop costruite da strutture armoniche elementari (la musica “neomelodica”). Iniziatore di questa nuova via è Nino D’Angelo, seguìto poi da Gigi D’Alessio: il primo prosegue poi verso una ricerca originale che tende alla “world music” , mentre il secondo verso il pop internazionale.
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